RACCONTO DI VIAGGIO

EQUATORIA, O° LATITUDE, WILD FRONTIERS
OUGANDA, NORD KENYA

È un viaggio di transizione all’alba di una vita dove i vincoli si allentano, viaggio che rompe con i codici della nostra filosofia dell’avventura. Non eravamo mai partiti in più di 4 e siamo in 8! Era sempre con le stesse 2 amiche e questa volta non conosciamo quasi nessuno! Ci lega il nostro capogruppo. Medico ed appassionato delle popolazioni primitive di Equatoria , che ha visitato durante gli ultimi 30 anni, ha quindi potuto vedere anche le più recenti trasformazioni di queste etnie. La globalizzazione è un vero flagello! Vuole farci toccare con mano la dura realtà di questa umanità indigente che urla la propria disperazione senza che nessuno abbia voglia di ascoltarla.
È un viaggio dove mi lascio guidare, sorprendere, trasportare… non ho preparato nulla. Le guide cartacee sono inutili perché non andremo nelle zone dette turistiche, o cosi poco! Il nostro scopo è l’incontro con delle popolazioni dimenticate da tutti, dai propri governanti e dalle ONG che amano farsi passare per salvatori del mondo. Queste etnie non hanno nulla da offrire, solo la loro scalogna, ma soprattutto la loro autenticità, autenticità che per il nostro gruppo non ha prezzo.

Il viaggio fu lungo, quasi massacrante. Già il caldo che regnava nella carlinga lasciava presagire i 30 - 35 gradi che avremmo dovuto sopportare in Uganda, perché è lì che inizia la nostra avventura, in quel paese del quale si sente poco parlare.

Il cuore verde dell’Africa
Dapprima una tavolozza di verde ci esplode negli occhi. Il paesaggio digrada in verde chiaro, smeraldo, scuro, bottiglia ogni tanto iridato di giallo oro. Qui è l’Africa verde! Le colline irte, che sono per la maggior parte dei crateri spenti da millenni, sono un unico patchwork. Sino alla cima, il minimo pugno di terra è coltivato, curato, qui non si teme la fame, tutto cresce!
Poi l’incontro con i gorilla ai confini col Congo sarà più che emozionante. Ero molto scettica all’annuncio di questa parte del programma. Non mi piacciono gli zoo, preferisco sapere gli animali liberi senza che occhi indiscreti li osservino. Certo qui sono totalmente liberi nel loro ambiente naturale, solo qualche famiglia si lascia avvicinare. L’incontro è molto regolamentato. Dopo alcune informazioni sul modo di agire con i gorilla, i rangers formano 4 gruppi di massimo 8 persone al giorno. Si dovrà camminare più o meno a lungo nella foresta totalmente impenetrabile. La progressione è lenta in una umidità che supera i 100%. Si scivola, ci si aggrappa ai rami, si rimane in allerta del minimo rumore, della minima traccia di questi giganti. Di colpo, a qualche metro da noi, una femmina tiene il suo piccolo in braccio e lo culla come farebbe un essere umano. Il maschio si fa sentire, forse non è contento della nostra intrusione nella sua vita famigliare? Tratteniamo il fiato e osserviamo senza fare rumore, come raccomandato dai rangers, questa scena di vita tranquilla. Le espressioni, le attitudini sono umane. È sorprendente, inimmaginabile, quasi surreale. Il cucciolo si metterà a giocare come un bambino, usando la sua liana come una corda, dondolandosi, gridando, ridendo sino a scivolare a tutta velocità dal suo ramo e lasciarsi cadere sui miei piedi e monello, partire correndo contento della sua birichinata. Più tardi il ranger vicino a me subirà l’attacco del padre, ci sarà un momento di panico perché il gorilla sembrava veramente in collera. Si girerà all’improvviso e balzerà su di noi facendomi cadere. Rimarrò aggrappata alle piante di questo ripido pendio aspettando che un ranger mi recuperi. L’incontro era quasi finito e questa ribellione è un chiaro invito da parte del gorilla ad andarsene e lasciare la sua famiglia vivere in pace.

I grandi laghi alle sorgenti del Nilo
Poi gli ippopotami! Sulle acque del lago Edward e del Nilo Bianco la nostra fragile imbarcazione scivola fra i mastodonti d’acqua dolce e la sensazione è di nuotare con loro. Amano nascondersi sotto l’acqua lasciando soltanto emergere le loro ridicole e piccole orecchie sulla superficie per tuffare la testa se avvertono un pericolo. Stupendi animali che sembrano inoffensivi sino a quando i giovani maschi non decidono di misurarsi fra di loro sollevando enormi spruzzi d’acqua. Poi comincerà a piovere e gli ippopotami affonderanno più profondamente sott’ acqua… a loro l’acqua piace moltissimo!

I Pigmei Baaka
Ma è il primo incontro con i Pigmei Baaka sul lago Bunyoni che inizierà a sensibilizzarci con il problema di riconoscimento di identità che incontrano le varie etnie che visiteremo nel corso del viaggio. Questa piccola etnia deve combattere in Africa Equatoriale, Gabon, Congo e Camerun per fare rispettare i propri diritti e soprattutto difendere la propria terra sottratta dagli stranieri e dai governanti. Terre e foreste dalle quali dipende la loro sopravvivenza perché questo popolo vive di caccia e di raccolto. I bambini felici di questa inaspettata visita ci isseranno sull’irto sentiero che porta al loro villaggio. Ognuno di noi si ritrova con 3 o 4 bambini con cui fare conoscenza. Ci faranno visitare la loro piccola scuola, piccola capanna con solo 2 banchi di legno tremolanti e una lavagna. Le nostre penne aiuteranno forse la diffusione del sapere e chi lo sa a farsi sentire aldilà delle foreste. Una donna è stata eletta come rappresentante di questo povero paesello e, assieme alla sua gente ci chiede, attraverso una danza, di dire al mondo che esistono e vogliono vivere in pace con i loro usi e costumi sulle loro terre ancestrali.

Si assiste sempre di più, nelle popolazioni primitive, all’indebolimento delle tradizioni. ( E non solo per effetto del mondo moderno globalizzato; spesso anche per la prepotenza dei popoli immediatamente vicini). Queste tradizioni cemento delle società tribali permettevano di distinguersi fra di loro, di evolvere senza perdere l’essenza della loro identità. Questi riti oggi calpestati si ritrovano ora soltanto nelle feste e spesso solo espressi con un sottile accenno. Si deve essere un esperto per rendersene conto. A poco a poco le nuove generazioni perdono il significato profondo di alcune attitudini durante le cerimonie col rischio di non poter ne spiegarsi ne aggrapparsi a queste regole complesse per comprendere il loro passato e di fatto il loro avvenire.

Il matrimonio dai Ba Hima
È durante una cerimonia di matrimonio dai Ba Hima che vedremo come può sopravvivere oggi una antica usanza. Se il matrimonio oggi adotta tutti i codici della nostra società moderna, dai Ba Hima in Uganda, la donna occupa sempre una posizione centrale perché di tradizione matriarcale. Ancora oggi la donna va a partorire nella sua famiglia, questo via vai fra la sua famiglia e quella del marito, nei momenti cruciali di una vita come l’attesa e la nascita di un bambino serve per segnare simbolicamente questa linea matriarcale. La donna, inoltre, si prepara al matrimonio seguendo una dieta ancestrale a base di latte e di farina di miglio che le farà prendere parecchi chilogrammi. Questa dieta inizia 6 mesi prima e continua 6 mesi dopo il matrimonio. Essere robusta aiuterà la donna a superare i successivi parti, testimonierà la ricchezza della sua famiglia e corrisponderà ai criteri di bellezza locale. Essere magri, per questo gruppo di Bantu, significa essere debole ed esposto alle malattie e di non essere in grado di mantenere una famiglia, quindi essere condannato a rimanere solo. È la donna che porta il gene della linea e potrà sposarsi con chi vorrà al contrario degli uomini che devono prendere imperativamente una donna Ba Hima anche se abitano in capo al mondo.
Osservando la cerimonia di oggi si percepisce come questa società matriarcale si sia integrata nella società moderna cambiando l’applicazione di alcuni codici pur di preservare la propria identità culturale.

I nilotici del grande nord, l’alto piano del karamoja
Il verde sgargiante che ci accompagnava lascia, pian piano, il posto all’ ocra della savana e del bush. Tutto è arido, il caldo si fa pesante, e le piste diventano sassose e difficilmente praticabili. Varchiamo il confine col Nord Kenya senza rendercene conto perché questa è zona di nessuno popolata soltanto da pietre. Siamo ad un passo dal Sud Sudan ancora in guerra, di cui vediamo i rifugiati, dei splendidi giovani dell’etnia Toposa, danzare nelle piazze di Kaabong o camminare nella polvere verso lo sterminato e triste Campo Profughi di Kakuma.

Ci fermiamo in un piccolo villaggio dei Dodos, un gruppo Ateker, sconosciuto al nostro amico medico. Il villaggio costruito con rami spinosi per una questione di sicurezza si situa abbastanza distante dalla pista. Alle casupole si accede attraverso una strettoia con, ad intervalli regolari, piccoli passaggi aperti che si oltrepassano in ginocchio talmente sono bassi e contorcendosi talmente sono stretti! Il villaggio circolare si compone di qualche miserabile capanna e granai che si riveleranno vuoti. Lo spettro della fame aleggia su questa etnia totalmente dimenticata. Spontaneamente una danza accompagnata dell’ululare delle donne inizia. Il capo del villaggio, in un inglese approssimativo, ci racconterà con grande disperazione di avere avvertito più volte le autorità locali ma che nessuno ancora è venuto a rendersi conto della loro indigente e precaria situazione. Ci supplica, prendendoci per una piccola ONG arrivata per caso, di fare sapere al mondo che hanno bisogno di aiuto, che hanno fame e che non reggeranno a lungo cosi.

Qui si toccano con mano i problemi reali della gente, le loro richieste sono legittime, non sono esagerate, riflettono i loro veri bisogni. Potremo solo fare una distribuzione dei nostri viveri chiedendoci come fare per allertare l’opinione pubblica. Chi vorrà ascoltarci?

In questa regione del Nord Kenya, nel Turkana, territorio esclusivo delle ONG internazionali che si danno da fare per i rifugiati dei paesi vicini trascurano le popolazioni locali. Qui nessuna forma di turismo esiste, il “bianco” è preso per missionario o per un rappresentante di una ONG, quindi una persona che può portare aiuto. Non possono capire ne concepire che non si possa fare nulla per loro.
Visiteremo diversi villaggi o campi nomadi dei Turkana che portano con fierezza le loro grandi collane di perline colorate. Tutti con umiltà ci faranno capire la loro fame, la loro angoscia di sentirsi invisibili agli occhi di tutta la comunità internazionale. Diversi villaggi Turkana si sono riuniti per salutare Roberto, il nostro amico medico, conosciuto lì da decenni e che sponsorizza alcuni progetti. Danze e canti iniziano nel letto di un wadi a secco e assieme balleremo con la convinzione di vivere un momento unico.
Poi arriva il tempo dei discorsi dove il clan degli uomini separato da quello delle donne ma tutti seduti per classe di età o di generazione presenteranno a turno le loro “doléances” . Si tratta della mancanza di acqua, la siccità presente da molti mesi devasta il gregge, i cereali crescendo male provocano la fame. La mancanza di pascoli innesca liti fra i gruppi perché tutti vogliono l’erba verde e grassa per le mucche. Tutti si lamentano della mancanza di considerazione da parte di tutte le autorità e supplicano di essere i loro portavoce. “Il mondo deve sapere” ci dicono!
Sotto i nostri occhi un popolo muore nell’indifferenza generale, questa gente non interessa nessuno perché non ha petrolio da offrire, nessuna terra rara da estrarre, nessuna acqua da prendere, sono solo bocche giudicate inutili da sfamare.
Il giorno dopo il gruppo delle vedove che si è costituito viene ad esporre i suoi bisogni. Vorrebbero una ambulanza per poter intervenire durante i problemi gravi di salute come l’episodio del quale saremo testimoni. Risolveremo la situazione prestando il nostro veicolo ad una donna incinta in difficoltà per recarsi all’ospedale dell’ONG il più vicino a circa 70 km della missione di Oropoi dove eravamo. La giovane madre arriverà appena in tempo per partorire. L’unica levatrice della missione visitava altre giovani madri.
Raccogliamo dei soldi nel nostro gruppo per fare nascere il progetto; progetto che sarà supervisionato dal rappresentante di queste comunità. Prima l’acquisto del veicolo è stato discusso per fare capire che questo bene dovrà essere curato, che genererà dei costi…il gruppo delle vedove ha ora 3 mesi per riflettere e decidere come spendere al meglio questi soldi messi in banca. È essenziale che le comunità investano nei progetti per la migliore riuscita di essi. È importante ascoltarli, prendere in considerazione i loro reali bisogni e non dare tanto per dare per lavare la propria coscienza.

Abbiamo visto. Siamo stati tra gente che muore lentamente di fame e di oblio. Non si può rimanere insensibili a queste afflizioni. Lì eravamo nella vera urgenza, nell’umano, nell’umanitario ben lontano dalle azioni spettacolari delle ONG che spendono male le loro energie e finanze. Non si rientra indenni da un tale viaggio, non sarà più possibile chiudere gli occhi e il cuore sulle disgrazie altrui. Abbiamo imparato a vedere aldilà delle richieste mute della gente e delle situazioni.
È perché siamo stati capaci di superare l’assenza totale di comfort, di addentrarci in zone discoste che fino a 5 anni fa erano infestate dalla guerriglia del L.R.A. il movimento che in nome del Signore rapiva donne e bambini e tagliava le teste, di non avere esitato a passare a piedi il confine nella valle del Rift che questa avventura che ci ha portato nel cuore dell’umanità maltrattata è stata possibile.

Le danze e i discorsi sono stati un denominatore comune di tutti questi gruppi etnici che abbiamo incontrato. È attraverso la danza, arte primitiva, che sono sigillate le alleanze fra i popoli e si unisce il proprio clan. Il discorso è “magico” perché è chi ha il maggior talento di oratore che sarà ascoltato, farà pendere l’ago della bilancia, otterrà qualche cosa, si farà notare. La parola rappresenta da sé una grande arte perché non è con la forza delle armi o col numero che si vince ma col sapere manovrare le parole.
Passi di danza e discorsi evolvono col tempo nella loro codificazione, nella loro espressione ma non ne perdono di forza. Ovunque siamo stati accolti i partecipanti aspettavano questi riti, la tradizione è quindi rispettata. Si deve sapere leggere in filigrana il passato, interrogarsi sul significato di ogni gesto od oggetto che compone una festa, un raduno per capirne pienamente il senso.
Questo porta a chiedersi qual è il posto dei riti nelle nostre società attuali, quello che apportavano prima e quello che abbiamo perso allontanandoli della nostra vita.
Crederci o non crederci non è il problema fondamentale, il problema è la coesione dei gruppi sociali perché i riti sono una forza intrinseca e che raduna. Ci burliamo spesso di queste tradizioni, pensandole obsolete, credendoci lo stesso un po’ perché nel nostro profondo siamo consci che mai i nuovi riti sociali virtuali non potranno rivaleggiare con le vecchie tradizioni ben ancorate e che affiorano a poco a poco durante feste e cerimonie.

Questo viaggio sconcertante ha risvegliato le nostre coscienze, affilato i nostri sensi. Ci ha arricchito non essendo rimasti senza voce davanti a splendidi monumenti ma, questa volta, per avere vissuto alcuni instanti presso gente che non chiede altro se non vivere dignitosamente senza sentire la fame. Non potremo mai dimenticare.